A sessant’anni non si può cambiare vita, dicono. Al
diavolo, e chi l’ha deciso? I figli
erano adulti, il marito era scappato con una stronza quindici anni più
giovane e i turni al ristorante le spaccavano la schiena. Quel paesino italiano
ai piedi delle Prealpi lombarde era
stato il suo rifugio per trentotto lunghissimi e splendidi anni – se esclusi gli
ultimi cinque - ma era giunta l’ora di tornarsene in Scozia, dove vivevano
le sue sorelle e gli altri parenti che le erano rimasti.
Aveva mollato il lavoro, comprato un biglietto e messo
in affitto l'appartamento. Avrebbe passato le ultime due settimane a casa di
un’amica, a preparare addii e valigie. Era pronta a porgere tanti cari saluti
al lago e al Bel Paese. Ormai sognava l'Irlanda, si parlava solo di Irlanda in sua
presenza, sentiva il sapore della sua
lingua nativa in bocca, sapeva che sarebbe morta dov’erano sepolte le ossa di
sua madre. Vedeva i vecchi amici e
ripeteva che, alla fine, Dublino è dietro l’angolo, avrebbe rivisto figli,
amici e nipoti almeno due volte l’anno. Le
aspettative la rendevano euforica, la prospettiva di tornare a casa le fece passare i giorni seguenti in serenità.
Quella sera era stata a casa dei Rossi a mangiare
dell’ottima polenta al cervo accompagnata da vino delle Langhe. Molte cose le sarebbero mancate, i figli, il coro, l'Italia, i Rossi le sarebbero mancati, ma in Irlanda era già
nata una volta, sentiva il bisogno di nascere una seconda volta. Four days left. Entrò in camera e, mentre si svestiva, passò di fianco
allo specchio. Si fermò. Fissò la sua immagine. Vide
tutte le sue rughe, quelle profondissime sulla fronte, quelle che le incorniciavano la bocca. Vide i capelli bianchi, corti, gli occhi invecchiati e si
lasciò cadere sul letto. Rimase lì, seduta, per un tempo indefinito, a guardarsi allo specchio.
A sessant’anni non si può cambiare vita. Avevano ragione.
G.G. (Berlino, 20 marzo 2015)
G.G. (Berlino, 20 marzo 2015)
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